I cinque errori che i banchieri centrali devono evitare

Fonte Il Sole24Ore: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-01-20/cinque-errori-banchieri-centrali-063518.shtml?uuid=Aaz05G1C

La crisi finanziaria è stata un periodo molto difficile per i responsabili delle politiche di tutto il mondo, comprese le autorità monetarie. Le banche centrali hanno abbassato i tassi d’interesse a livelli prossimi allo zero e adottato un’ampia gamma di misure straordinarie senza precedenti.
L’esperienza recente offre, a mio avviso, cinque lezioni da cui gli autori delle politiche monetarie possono imparare. In sintesi. L’indipendenza delle banche centrali resta fondamentale per garantire la stabilità dei prezzi, soprattutto durante le crisi.

Un obiettivo chiaramente definito di stabilità dei prezzi è essenziale per ancorare saldamente le aspettative d’inflazione, che possono agire da stabilizzatore automatico in un contesto di crisi. Tentare di mettere a punto una politica monetaria sulla base di indicatori, come lo scarto dal Pil potenziale e i parametri dell’inflazione di base, soggetti a revisioni a posteriori e talvolta fuorvianti, può comportare (e spesso comporta) gravi rischi. La materia ultima della politica monetaria è il denaro, quindi le variabili monetarie e finanziarie dovrebbero essere i fattori chiave nella valutazione dei rischi a medio-lungo termine per la stabilità dei prezzi, soprattutto nei periodi di crisi finanziaria. Infine, una politica macroprudenziale può rafforzare in misura significativa l’impianto complessivo di politica macroeconomica.
Il valore dell’indipendenza delle banche centrali è la prima duratura lezione. Di certo costituisce un elemento sine qua non di una politica monetaria efficace, in ogni periodo e in tutte le circostanze possibili. Se una banca centrale non è indipendente, i responsabili delle politiche di altre istituzioni hanno un forte incentivo a trasferire alla banca problemi e responsabilità di cui spetterebbe a loro rendere conto. Questo porta sempre a un offuscamento delle responsabilità e, potenzialmente, a una perdita di fiducia, che in ultima analisi mina l’efficacia della politica monetaria.

Tentare di mettere a punto una politica monetaria sulla base d’indicatori, come lo scarto dal Pil potenziale e i parametri dell’inflazione di base, soggetti a revisioni a posteriori e talvolta fuorvianti, può comportare (e spesso comporta) gravi rischi. L’esperienza, soprattutto prima della crisi, ha messo in evidenza i rischi di definire la politica sulla base d’indicatori e variabili non abbastanza robusti.

Vorrei fare qualche esempio, a partire dallo scarto dal Pil potenziale. Come la letteratura ha ampiamente dimostrato, i sostituti empirici utilizzati per rilevare il divario rispetto al Pil potenziale sono soggetti a costanti revisioni. Vi sono prove che per il periodo 2002-2004, le stime relative all’output gap negli Stati Uniti sono risultate a posteriori nettamente inferiori alle stime in tempo reale. Chi formula le politiche basando le proprie decisioni principalmente su tali valutazioni della situazione ciclica può essere gravemente fuorviato. La “Grande inflazione” degli anni 70, per esempio, è derivata in larga misura da errori di misurazione nelle stime in tempo reale dello scarto dal Pil potenziale, associati a un’iperreazione ai parametri di tale scarto nella valutazione dello stato di salute dell’economia. Lo stesso vale per i tassi d’interesse bassi mantenuti per un periodo prolungato a metà del decennio scorso.

I parametri dell’inflazione di base sono un altro esempio. Possono dare segnali fuorvianti nel caso di variazioni persistenti dei prezzi relativi. Questo non è tanto un insegnamento che possiamo trarre dalla crisi, quanto un fenomeno che la crisi ha messo in evidenza come uno dei fattori principali della “Grande moderazione” che ha preceduto la crisi.
Gli esempi abbondano. Le innovazioni tecnologiche concentrate nella produzione dei beni inclusi nel paniere dell’inflazione core possono spingere verso il basso alcuni prezzi selezionati in modo persistente. Inoltre, è emerso che la globalizzazione ha depresso i prezzi dei prodotti considerati nell’indice dei prezzi al consumo (Cpi) di base, a causa della maggiore concorrenza globale nel settore dei beni scambiabili, mentre i prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari sono stati spinti verso l’alto dalla domanda di quelle economie emergenti che si stavano aprendo all’economia globale. In queste condizioni, un’eccessiva enfasi sull’inflazione di base può distorcere l’inferenza politica. L’inflazione di base può fornire ai responsabili delle politiche una valutazione sbilanciata verso il basso delle pressioni generali sui prezzi e suggerire, erroneamente, una linea politica pro-ciclica.
In un mondo globalizzato, i meccanismi destabilizzanti che tali distorsioni di prospettiva possono attivare sono molteplici. Oggi i flussi di beni e di capitali più consistenti implicano una forte interazione delle decisioni di politica monetaria nei paesi con un peso rilevante a livello sistemico. Di fatto, le decisioni di politica monetaria nei paesi industrializzati trovano negli accordi sui tassi di cambio di importanti economie di mercato emergenti un moltiplicatore potenzialmente potente.

Per esempio, la politica monetaria attualmente accomodante dei paesi industrializzati genera più liquidità a livello globale di quella che vedremmo se le valute delle economie di mercato emergenti potessero fluttuare liberamente. I limiti alla sterilizzazione degli afflussi di capitali internazionali portano a traboccamenti di liquidità generalizzati su scala globale. Contemporaneamente, l’accumulo di riserve estere da parte delle economie di mercato emergenti implica pressioni al ribasso sui tassi d’interesse a lungo termine nelle economie globali. Questo, a sua volta, intensifica le tendenze dei prezzi delle attività e delle materie prime, determinando potenzialmente ulteriori squilibri e un aumento dell’inflazione mondiale. Nella definizione delle politiche, le autorità monetarie dei paesi industrializzati dovrebbero tenere conto di questa dimensione.
Le politiche monetarie tese alla definizione di obiettivi a breve termine comportano anche il rischio di favorire un eccessivo attendismo politico per un periodo troppo lungo. L’abbandono tardivo di un atteggiamento accomodante straordinario può creare le premesse di futuri squilibri. Man mano che l’economia si riprende da una recessione eccezionalmente profonda, le stime in tempo reale dello scarto dal Pil potenziale e le stime della disoccupazione strutturale o del Nairu (tasso di disoccupazione compatibile con un tasso stabile di inflazione) sono particolarmente incerte.

È probabile che la disoccupazione strutturale abbia subito un aumento significativo a causa della mancata corrispondenza fra le competenze dei lavoratori che perdono il lavoro nei settori in fase di contrazione, e quelle dei lavoratori richiesti nei settori dell’economia in espansione. Mentre l’enfasi sui parametri del divario dal Pil potenziale può instillare la convinzione che sia possibile ridurre la disoccupazione con strumenti monetari, ciò diventa un’illusione se il problema è dovuto a uno sfasamento strutturale delle competenze o alle imperfezioni del mercato del lavoro. Le politiche strutturali sono il solo strumento in grado di affrontare la disoccupazione strutturale.

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